Ceci n’est pas une autobiographie: questa non è un’autobiografia. Antonietta Di Vito lo dichiara in epigrafe, parafrasando la celebre opera di René Magritte. Il tradimento delle immagini è così chiamato a evocare gli inciampi della parola, il rapporto – mai lineare – tra rimembranza e sublimazione.
Non che l’autrice manchi di costeggiare le zone limitrofe al racconto di sé, ma La teoria della carruba (La bussola, 2021) appare piuttosto il resoconto di un’assenza, un inventario di cose perdute, tra smarrimento e sradicamenti. Sulla scorta di una poetica che fa del frammento una forma narrativa eloquente, il dato personale è infatti sottoposto alle regole del gioco via via imposte dal romanzo di formazione, di famiglia, dall’intreccio tra macro e microstoria. Nella disorganicità del discorso, la forte incidenza del ricordo appare in tal modo finalizzata al recupero di una sensazione, di un dialogo, di qualcosa che è stato e che oggi non è. Non c’è un filo logico, l’anamnesi procede da sé e la vita risulta improntata a una casualità programmatica, a quella ‘simultaneità dei sogni’ che innerva la memoria. [...]